Lo studio della psichiatria tout court e della psichiatria d’infanzia in particolare rappresenta un ambito di studi medici decisamente giovane, che ha conosciuto i maggiori sviluppi nel corso del XX secolo e che, tuttavia, ancora oggi rappresenta una sfida impervia per la complessità dell’oggetto d’indagine (cervello e strutturazione della personalità). Non a caso, nel corso dei decenni passati, numerose sono state le teorie che si sono susseguite come dominanti ma effimere.
E non solo. La psichiatria ha dovuto fare i conti anche con la nascente psicoanalisi che, da Freud in poi, ha talvolta conteso o, più spesso, affiancato gli studi in materia.
E’ indubbio che l’età infantile rappresenti la sede della strutturazione della personalità dell’individuo e che gli eventuali sviluppi patologici successivi, oltre che da fattori biologici-costituzionali, siano direttamente influenzati dalle esperienze del bambino e dalle relazioni affettive e non che caratterizzano questa fase di vita. Parallelamente è altresì indubbio che la successiva età puberale abbia un significato ugualmente importante che consente ancora la possiilità di “aggiustamenti” nella struttura psichica di un individuo. Ora, per ciò che riguarda più specificatamente la schizofrenia va detto che una diagnosi in tal senso, corroborata dai sintomi fondamentali o di prim’ordine ( quali eco del pensiero, udire voci, percezioni deliranti, tendenza all’isolamento in un mondo fantastico, avolizione, anedonia), nei bambini è alquanto rara; la schizofrenia, nelle sue varie forme, compare solitamente in età più avanzata, generalmente a partire dal periodo puberale. Cionondimeno si danno casi di bambini diagnosticati schizofrenici, generalmente soggetti con difficoltà relazionali interpersonali, facili alle risposte ansiose e cresciuti in ambienti famigliari disturbati. Personalmente, nel corso di alcune esperienze di volontariato, ho avuto modo di conoscere un bambino di nove anni, ospitato in un centro diurno psichiatrico: Filippo (nome di fantasia), appariva svogliato, oppresso dalle figure genitoriali (che mal accettavano il suo ricovero), chiuso in un mondo suo immaginario in cui si era creato una sorta di amico con cui parlava, litigava, rideva… Non ho avuto modo di approfondirne la storia ma ricordo molto bene che il trattamento della sua forma schizoide, proprio in ragione della sua età e di quanto detto in precedenza sulla possibilità di “aggiustamenti” nella struttura psichica nel periodo infantile, era sostanzialmente psicoterapeutico e fondato sull’uso di giochi che divenivano per lo psicoterapeuta uno strumento per conoscere ed aiutare Filippo a “uscire fuori”. L’uso di psicofarmaci in questo caso era stato limitato a una prima fase iniziale e volto a mitigare uno stato di eccitamento all’ingresso del bambino nel centro. Personalmente credo che l’approccio terapeutico così concepito fosse quello che presentava forse più rischi ma che ambiva anche al recupero e a restituire al bambino una possibilità di ricostruzione del sè che, con l’uso spesso scellerato (esempi in tal senso paiono numerosi sopratutto negli Stati Uniti, meno in Italia) di neurolettici ed altri farmaci, credo sia forse (forse!) più semplice ma altrettanto rischioso per le possibili conseguenze di dipendenza.
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